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La memoria traumatica e il ricordo traumatico di Giovanni Mereu La memoria personale di ognuno di noi, i ricordi che serbiamo nel cuore, nella mente, negli oggetti che ci circondano e che riempiono le nostre stanze e le nostre case; ricordi che si manifestano vividi e reali quando indossiamo nuovamente un vecchio maglione o sentiamo per caso un odore quasi dimenticato e improvvisamente, anche solo per pochi attimi, siamo catapultati in una realtà che non c’è più, fatta di sensazioni rivissute assieme ad un certo calore emotivo, se si tratta di un ricordo piacevole, o a disagio, dolore, terrore, se si rammenta un ricordo spiacevole. Sin da un primo esame sommario di quanto accade nella vita quotidiana si può cogliere come ciascuno di noi dia per scontata un’idea unitaria della "memoria": diciamo e pensiamo cose come “non ho mai avuto molta memoria..”, oppure “ho buona memoria, io!”. Tuttavia, se analizziamo dettagliatamente da quali osservazioni derivino queste nostre convinzioni, non possiamo non essere colpiti dalla varietà , dalla ampiezza e numerosità del tipo di contenuti in cui si incarna il nostro concetto astratto e unitario di memoria. Potremmo avere, utilizzando una schematizzazione tratta da Leone (2001):
Ma cosa succede quando il ricordo è talmente duro e orribile da non poter essere nemmeno verbalizzato? Cosa succede quando non è possibile dargli un senso, una collocazione nel divenire del nostro passato, che giorno dopo giorno si arricchisce di qualcosa che “è stato”? Attualmente, sono in molti ad accettare l’idea che i ricordi di avvenimenti traumatici possano essere rimossi dalla coscienza per un istinto di autoconservazione e questo stesso meccanismo di rimozione, secondo Freud, era alla base della perdita dei ricordi dei primi anni di vita (Freud, 1915). Ironicamente, numerosissimi primi ricordi sembrano riferirsi a lesioni, incidenti, ferite, contusioni, fratture, ustioni, morsi, insomma ad avvenimenti che sono traumatici nel vecchio significato della parola. E’ escluso che vengano rimossi, anzi sono proprio le prime annotazioni nella memoria autobiografica. Dunque, ogni tentativo di capire come le persone ricordino un trauma presuppone almeno una definizione di lavoro per quanto riguarda quel che può essere definito come “esperienza traumatica”. Come Green (1990) ha puntualizzato, vi possono essere tre variabili nel modo in cui l’individuo ricorda il trauma: un evento oggettivamente definito, la personale interpretazione soggettiva del suo significato o la sua reazione emozionale ad esso. Il processo di definizione è carico di complessità. Per cercare di dare un po’ di ordine a questa complessità di definizione, credo sia necessario introdurre un’altra definizione, quella di Disturbo Post Traumatico da Stress, secondo quanto riportato nel DSM-IV ("Diagnostic and Statistical Manual - 4th Edition", 2002) e avvalendomi di alcuni brani tratti appunto da questo, quelli più legati all’argomento in oggetto, in modo da non perdere il focus della discussione, centrato sulla dimensione psicologica del ricordo traumatico piuttosto che sul suo versante psichiatrico. “La caratteristica essenziale del Disturbo Post-traumatico da Stress è lo sviluppo di sintomi tipici che seguono l’esposizione ad un fattore traumatico estremo che implica l’esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte o lesioni gravi o altre minacce all’integrità fisica” propria e/o di un’altra persona; “o il venire a conoscenza della morte violenta o inaspettata, di grave danno o minaccia di morte o lesioni sopportate “La risposta della persona all’evento deve comprendere paura intensa, il sentirsi inerme o il provare orrore (oppure, nei bambini, la risposta deve comprendere comportamento disorganizzato o agitazione). I sintomi caratteristici che risultano dall’esposizione ad un trauma estremo includono il continuo rivivere l’evento traumatico, l’evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma, l’ottundimento della reattività generale e sintomi costanti di aumento dell’arousal”. “Per i bambini, gli eventi traumatici dal punto di vista sessuale possono includere le esperienze sessuali inappropriate dal punto di vista dello sviluppo senza violenza o lesioni reali o minacciate. Gli eventi vissuti in qualità di testimoni includono, ma non sono limitati a, l’osservare il ferimento grave o la morte innaturale di un’altra persona dovuti ad assalto violento, incidente, guerra o disastro o il trovarsi di fronte inaspettatamente a un cadavere o a parti di un corpo”. (APA, 2002: pp. 427-429). Per la persona con DPTS, dunque, ricordare il trauma è come riviverlo. Gli eventi traumatici del passato sono richiamati con tale vividezza e intensità emotiva che sembra quasi che il trauma si stia riverificando. Sono state documentate diverse modalità con cui la gente rivive il trauma nel ricordo:
I problemi con quelle che, nella vita normale, sono funzioni così ovvie come osservare e ricordare sono stati segnalati da sopravvissuti ai campi di concentramento e di sterminio. In Sun turned to darkness (1998) Patterson scrive che, tra le tante cose distrutte e sterminate, c’era anche la memoria stessa: moltissime persone che erano state nei campi di concentramento lamentavano vuoti di memoria. Ripensando alla sua permanenza ad Auschwitz, Fania Fénelon scrisse che le riusciva sempre più difficile raccontare delle storie ai bambini, e che quei bambini si accorgevano sempre meno che la sua memoria regrediva. Olga Lengyel, un’altra sopravissuta di Auschwitz, notò il proprio peggioramento mentale e quello degli altri soprattutto per via del peggioramento della memoria. Vivere in uno stato di continuo pericolo, essere sempre sul chi va là per le minacce incombenti, lo sfinimento, la anche la mancanza di cibo e di vitamina B e il conseguente torpore, intaccano la memoria e aprono dei buchi nel ricordo (Wagenaar, Groenweg, 1990). L’intensità emotiva del trauma spesso rende molto difficoltoso per il soggetto traumatizzato rimettere insieme i pezzi di ciò che è successo e raccontarlo in un formato dotato di coerenza narrativa. (Van der Kolk, Fisler, 1995). Ad esempio, sembra quasi che l’abuso sessuale durante la giovinezza motivi i bambini a codificare il meno possibile, sostenendo in tal modo uno stile di recupero mnemonico generico: le ricerche sulle vittime di violenze e di abuso ci dicono ormai con chiarezza come queste esperienze traumatiche non riescano ad essere verbalizzate, quando sono accompagnate da ansia, vergogna, sensi di colpa cronici, da rabbia inespressa e da paura. Avviene così che per evitare la sofferenza connessa al riemergere di questi stati emotivi siano necessari meccanismi di inibizione delle espressioni, dei pensieri e del comportamento (Pennebaker, Susman, 1988) che, cronicizzandosi, possono accompagnare l’individuo per tutta la vita. Dimenticare? Impossibile. Una delle più contestate questioni nel campo del trauma riguarda l’amnesia per l’evento traumatico. L’amnesia è l’incapacità di ricordare fatti certi ed esperienze che non può essere attribuita ai meccanismi dimenticare ordinario: non pensare per un periodo di tempo a qualcosa non è definibile come amnesia. Per definizione, dunque, una diagnosi di amnesia richiede una vera e propria incapacità di ricordare. Secondo McNally (2003), gli elementi cardine dell’amnesia traumatica risultano essere quattro:
Ma l’amnesia psicogena non deve essere confusa con una presunta amnesia postulata per spiegare perché un individuo può non ricordare di aver subito un abuso sessuale nell’infanzia. I due tipi di fenomeni sono molto diversi, poiché l’amnesia psicogena classica inizia immediatamente dopo l’evento precipitante, coinvolge una perdita di identità personale e una massiccia perdita di memoria retrograda, non soltanto di quella parte relativa all’evento precipitante; raramente si protrae per più di qualche settimana e solitamente termina improvvisamente piuttosto che gradualmente. In più, la restaurazione della memoria raramente richiede una psicoterapia. Nel caso della ipotizzata amnesia per quelle situazioni in cui emergono dei presunti ricordi di abusi repressi e poi recuperati, il discorso è un po’ diverso. Una amnesia totale per l’evento traumatico e un ritrovamento “catartico” in memoria del ricordo dimenticato non ha solide basi. Come evidenziato da Schooler e colleghi (1997), le persone , solitamente, tendono a dimenticare di aver ricordato ( e addirittura verbalizzato) il trauma subìto, durante un periodo in cui pensavano di averlo dimenticato. E’ solo da qualche decennio che la psicologia ha cominciato ad interessarsi al ricordo traumatico e ancora lunga sembra essere la strada per la sua comprensione. La memoria autobiografica non è formata solo, come una prima considerazione spontanea ci porterebbe a credere, dai ricordi consapevoli. Inoltre, risulta accessibile attraverso una molteplicità di processi, sia controllati sia automatici, che rispondono con grande sensibilità all’interpretazione soggettiva delle necessità del compito di memoria effettuata dalla persona che ricorda. Inoltre, le reazioni emotive all’evento traumatico, come ad esempio lo sviluppo di un DPTS, mostrano come le esperienze traumatiche influenzino anche la salute fisica, oltre che mentale, dell’individuo e che, in un certo modo e se si verificano durante la giovinezza, potrebbero significare una minaccia per lo sviluppo di una memoria sana o perlomeno potrebbero essere causa della sviluppo di bias atti a distorcere la raccolta dei differenti tipi di informazioni presenti nel contesto particolare di un evento traumatico o anche nella vita di tutti i giorni. La impossibilità di raccontare e di rievocare certi episodi traumatici del passato provoca sintomi e malattie che possono migliorare o scomparire se si riesce a tradurre in parole e ad elaborare le esperienze da cui si é rimasti sconvolti. Tuttavia, la pura e semplice espressione di un trauma non è sufficiente, quando ad essa non si accompagna l'elaborazione cognitiva delle emozioni. L'uso di tecniche espressive, non verbali quali il movimento , la danza , la musica, le arti ecc che pure implicano un effetto catartico o di sfogo di emozioni, può magari indurre temporaneamente un certo benessere, ma non incide nel produrre cambiamenti duraturi sullo stato di salute. Per migliorare lo stato di salute sembra necessario tradurre le esperienze in parole, integrare pensieri e sentimenti e rendere coerente e significativa la propria storia: in una parola operare connessioni che diano significato e senso alle esperienze. Quando poi un evento traumatico è stato inserito nella propria narrazione autobiografica ed è rientrato a far parte della memoria autobiografica, questo ne risulta semplificato. La mente non ha più bisogno di affaticarsi troppo per dargli una struttura e un significato. E via via che l'esperienza viene raccontata e ancora raccontata, diventa più breve e i dettagli vengono gradatamente sfumati, fino a che solo gli elementi salienti e più rilevanti vengono rievocati in una storia che, ripulita dagli elementi grezzi, diviene più breve, compatta e coerente (Pennebaker, 1999). Non bisogna dimenticare, tuttavia, che l'atto del narrare, quando sono ancora vivi gli effetti dei sintomi di un DPTS, non solo può riattivare il trauma e determinare quindi malessere, ma anche generare racconti confusi, disorganizzati e incompleti (Pennebaker, 1999): gli autori ipotizzano che se le persone non hanno ancora strutturato adeguate capacità di coping o cognitive per far fronte all'evento stressante non possono trarre giovamento nel fornirne un resoconto (Gidron, Peri, Connolly, Shalev, 1996). In ogni caso, gli eventi traumatici rappresentano dei punti di svolta nella vita di chi li ha vissuti, forse diventando parte di loro stessi, talvolta mutando d’aspetto le loro vite, chiudendo loro delle porte, costringendoli a cambiare direzioni. Sono eventi significativi come lo sono molti altri eventi dal carattere positivo di cui tutti noi, o quasi, abbiamo avuto esperienza e, in virtù della loro importanza, li ricordiamo e li ricorderemo, sempre. Bibliografia American Psychiatric Association (APA), (2002), Diagnostic and statistical manual of mental disorders. 4th ed., rev. [DSM-IV.] Washington. Bernsten, D. (1998).Voluntary and involuntary access to autobiographical memory. Memory, 6, 113-141. Freud, S. (1915), Repression. Standard Edition, vol. 14, 146-158. London: Hogarth Press. Gidron, Y., Peri, T.,Connolly, J.F., Shalev, A.Y. (1996). Written diclosure in postraumatic stress disorder: Is it beneficial for the patient?, Journal of Nervous and Mental disease, 185, 505-507 Green, B. (1990), Defining trauma: Terminology and generic stressor dimensions. Journal of Applied Social Psychology, 20, 1632-1642. Leone, G. (2001), La Memoria Autobiografica, Conoscenza di sé e appartenenze sociali. Roma: Carocci Editore. McNally, R. J. (2005), Remembering Trauma. NY: Belknap Press. Patterson, D. (1998). Sun turned to darkness. Memory and recovery in the Holocaust memoir. Syracuse (NY): Syracuse University Press. Pennebaker, J.W., Susman, J.R. (1988). Disclosure of traumas and psychosomatic processes. Social Science and Medicine, 26, 327-332. Pennebaker, J.W. (1999). Tradurre in parole le esperienze traumatiche: implicazioni per l’abuso infantile e per il mantenimento della salute, Psicologia della Salute, 2, 32-48. Schooler, J. W., Bendiksen, M., Ambadar, Z. (1997). Taking the middle line: Can we accomodate both fabricated and recovered memories of sexual abuse?, in M. A. Conway, ed., Recovered memories and false memories, 251-292. Oxford: Oxford University Press. Van der Kolk, B. A., Fisler, R. (1995). Dissociation and the fragmentary nature of traumatic memories: Overview and exploratory study. Journal of Traumatic Stress, 8, 505-526. Vasterling, J. J., Brailey, K., Constans, J. I., Sutker P. B. (1998). Attention and memory dysfunction in posttraumatic stress disorder. Neuropsychology, 12, 125-133. Wagenaar, W. A., Groeneweg, J. (1990). The memory of concentration camp survivors. Applied Cognitive Psychology, 4, 77-87. |